A guardia del Cuore verde | Racconto

Foto di 5001074 da Pixabay: https://pixabay.com/it/photos/calanchi-appennini-collina-panorama-2862580/
Foto di 5001074 da Pixabay

Settembre 2016.

L’auto viaggiava fra le montagne, lenta, come una turista un po’ distratta che si aggira per le stradine di un centro storico, fra i gonfaloni del rione e le bancarelle con le cartoline e le magliette.

In realtà, l’auto si era persa. O meglio, si era perso Marcel, il guidatore. Girava a vuoto da tre ore, era sveglio da ventiquattro.

Navigatore: non aggiornato, completamente inaffidabile. Mappe sul cellulare: fuori uso, causa batteria scarica. Atlante stradale: imprudentemente buttato via due anni prima, dopo l’acquisto del navigatore.

“Mi raccomando, Marcel, tieni sempre l’atlante in macchina…”, gli ripeteva la voce del padre in testa, ricordo di gioventù.

“L’atlante…”, mormorò fra sé. Crepava di sonno.

Aguzzò gli occhi: l’omino della Michelin era apparso come un pokémon un centinaio di metri più avanti lungo la strada, e rideva come un pazzo. Rideva di lui. Rideva della sua triste condizione.

“Pneumatico del…ronf…”, bofonchiò Marcel, accelerando verso quell’essere mistico, e investendo al suo posto una ruota caduta da chissà quale cofano qualche tempo prima.

*

Il Sole, ritirandosi dietro un castello diroccato sulla cima di una montagna, salutava i viaggiatori e, per quanto di competenza di Marcel, gli autostoppisti.

Dopo circa un’ora di attesa accanto alla macchina incidentata, perse le speranze di trovare chi lo portasse a S…, si era messo in cammino lungo la strada.

Salì lungo un tornante. Accanto a lui gli alberi, fittissimi, risalivano la montagna. Dall’altro lato, le valli coltivate, illuminate dal tramonto, cosparse di vecchi casolari apparentemente abbandonati.

*

La notte, fredda.

Marcel era seduto su una panchina in un’area di sosta, che di giorno gli avrebbe dato una vista fantastica sul panorama e, magari, su qualche paese dove cercare almeno un’officina, ma che, ormai, sembrava aprirsi su un oceano tempestato di onde nere sotto un cielo grigiastro, illuminato da una Luna gigantesca. Forse anche per questo, abbandonato l’orizzonte, Marcel stava fissando da qualche minuto il bidone traboccante di spazzatura accanto alla panchina, e sotto di esso una serie di bottiglie di birra, cartacce, vaschette di plastica.

Era concentratissimo.

Una civetta lo fece sussultare, riportandolo al freddo. Si strinse nelle braccia, strofinandosi come poteva per scaldarsi.

Uno strano tintinnare gli procurò un altro sussulto.

A lato della strada, risalendo dagli stessi tornanti che aveva seguito lui, stava arrivando una figura pittoresca: un vecchio, dall’aspetto di un ottantenne ma, evidentemente, forte come una quercia, si aiutava nella salita con un bastone dotato di campanello, tirando con l’altra mano una piccola cassapanca in legno dotata di ruote. Indossava un berretto di lana che forse, per la vecchiaia del proprietario, aveva iniziato ad andargli un po’ largo, o forse solo un berretto a sua volta vecchio e un po’ slabbrato.

A Marcel sembrò una visione miracolosa, e subito si alzò dalla panchina, sbracciandosi e salutando il suo salvatore.

*

La casa del vecchio era un misto fra il nido di un’aquila e la tana di un orso: costruita praticamente all’interno della montagna, si trovava su quella che Marcel avrebbe giurato essere la vetta più alta della zona, nel fitto dei boschi, come interrata appena sotto la cima. A sigillare l’ingresso, una porticina bassa e stretta, da cui il vecchio era passato senza problemi tirandosi via la carriola (che aveva insistito per portare da sé lungo la strada), ma contro cui Marcel aveva rischiato di spaccarsi la testa.

L’ingresso, oltre un piccolo vestibolo, portava in una cucina che avrebbe potuto essere quella di un hobbit, di uno gnomo o di un elfo, tanto tutto era di dimensioni ridotte.

All’inizio, l’unica caratteristica della casa che aveva messo a proprio agio Marcel era stata il suo tepore. Dopo qualche minuto, tuttavia, anche un minestrone riscaldato si incaricò di fargli trovare un po’ di pace.

Il vecchio sorbiva il minestrone in silenzio, con gli occhi fissi nel piatto. Definirlo taciturno sarebbe stato anche poco. In due ore, Marcel gli aveva sentito dire sì e no dieci parole, molte delle quali dei monosillabi.

Era forse dovuto alla fatica: era certamente comprensibile che un anziano, probabilmente sveglio da prima dell’alba, di ritorno dalla valle con una carriola appresso, non avesse molta voglia di parlare.

A sua precisa domanda, il vecchio, che aveva percorso almeno in parte la sua stessa strada, gli rispose che la macchina era ancora dove l’aveva lasciata, cioè in mezzo alla carreggiata. Quella strada, spiegò il vecchio, non era molto trafficata. Evidentemente, quel giorno, solo lui e l’auto che aveva perso la ruota in precedenza ci erano passati.

Rinfrancato dal minestrone, più o meno rassegnato riguardo le sorti della macchina, Marcel alzò gli occhi dalla tavola, guardandosi intorno.

“Ah, vedo che si coltiva anche l’aglio! E prende bene, qua in montagna?”, chiese, indicando una serie di mazzi attaccati alle pareti.

L’aglio non era del vecchio, ma un regalo di un suo amico, un prete del paese di C….

In effetti, ora che si era ripreso, Marcel iniziava anche a sentirne l’odore, peraltro abbastanza forte data la varietà biologica, anzi quasi selvatica, di quei tuberi grossi il doppio di quelli del supermercato.

Il vecchio, senza che Marcel glielo chiedesse, e senza nemmeno che lo desiderasse, si alzò e tolse una testa d’aglio da uno dei mazzi, insistendo perché la prendesse con tutto il gambo.

*

Marcel dormiva della grossa su una sedia, il capo sul tavolo fra le braccia conserte, l’aglio che sporgeva verso l’alto come uno strano fiore. Il vecchio aveva insistito perché prendesse il suo letto senza fare complimenti, ma lui ne fece abbastanza da farlo desistere: aveva ricevuto ben più di quanto potesse aspettarsi, e si era ripromesso proseguire fino al più vicino paese appena sveglio.

Un rumore inaspettato: bussavano alla porta.

*

Era quasi l’alba. Marcel e il vecchio erano rannicchiati nella camera da letto, che erano riusciti a barricare alla meglio con il pesante comò di legno. Quando i colpi alla porta cessarono, Marcel, ancora sotto choc e balbettante, chiese cosa fossero quegli animali là in cucina.

La voce del vecchio si fece monotona, come stesse recitando una preghiera imparata a memoria: “Quelli”, cioè gli esseri che stavano devastando la sua cucina, erano persone vissute decine o centinaia di anni prima, credute morte ma in realtà ancora vive, giovani e forti, che vivevano nascoste, ma che di notte si trasformavano in fiere assetate di sangue; lui viveva lì per fare la guardia, per tenerli lontani dalla valle e dai paesi vicini. Alcuni li conosceva di persona, e ricordava ancora le loro prime trasformazioni, i loro primi delitti.

Marcel colse l’occasione per scusarsi: a prescindere da chi fossero quegli esseri, era stato colto completamente alla sprovvista.

Il vecchio, invece, dimostrava di sapere il fatto suo: prima di tutto, Marcel non avrebbe dovuto aprire del tutto la porta, ma solo uno spiraglio, lasciando attaccato il catenaccio; avrebbe poi dovuto ordinare a chi era fuori di fargli vedere le mani (o meglio ancora un solo dito, per maggior sicurezza); a quel punto avrebbe sicuramente capito, per la peluria, per la muscolosità dei tessuti, per gli artigli, che quello che aveva davanti non era una persona, ma una specie di belva.

Marcel chiese cosa potessero fare per salvarsi.

La risposta fu secca: aspettare.

*

Un raggio di luce filtrò dalle tapparelle: era l’alba che benediceva, con uno strano simbolismo, una sveglia caduta a terra durante le operazioni spostamento del comò.

Marcel, cotto di sonno ma più sveglio che mai, scoppiò in una risata isterica.

Il vecchio sorrise, facendosi il segno della croce e baciando un crocifisso che portava appeso al collo. Aprì cautamente la porta: quella che una volta era la sua cucina sembrava un insieme di detriti di cantiere, fra calcinacci, mobili sfasciati, il rubinetto annodato come se ci fosse passato Braccio di Ferro, e una pozza d’acqua sporca sotto di esso.

Oltre il gocciolare dell’acqua per terra, silenzio.

*

Gli uccelli twittavano gioiosi, l’aria fresca e pulita pizzicava la pelle e le narici. Marcel si sentiva rinato.

Con mille preghiere e mille insistenze riuscì, sull’uscio, a dare al vecchio 500 euro in contanti, tutto quello che aveva in tasca, per le prime riparazioni più urgenti, promettendogli di tornare appena possibile con altri soldi e il necessario per difendersi.

Si salutarono con un abbraccio, lui sentendosi debitore della vita come verso un padre, il vecchio saggio e confortante, come conscio di aver fatto il suo dovere e niente più.

Marcel non riuscì a fare che pochi passi prima di voltarsi a salutare ancora il suo salvatore. E mentre quello rispondeva al saluto, un braccio peloso lo trascinò dentro la casa, sbattendo la porta.

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