
Autin, il nostro povero Autin, scomparve nella nebbia una mattina di aprile di tanti anni fa.
Eravamo a funghi, quel giorno, io, lui e Sorel, sulle montagne. Tre vecchi amici legati da tanto, nel tempo e nelle cose. Eravamo stati sempre insieme, e insieme andavamo a funghi.
Autin, in particolare, andava anche a caccia, ma non con noi. Ci andava da solo perché, diceva, voleva che fosse tutto come in principio, quando il Cervo e l’Uomo si erano incontrati per la prima volta, l’uno armato di corna, olfatto acutissimo e gambe scattanti, l’altro di un arco di legno e di un cervello che già aveva in sé la bomba atomica.
Un giorno Sorel, a sentire per l’ennesima volta questa stentorea dichiarazione di sfida nei confronti della Natura, gli chiese come mai, allora, lui a caccia ci andasse col fucile e non con l’arco, e perché ci andasse in mimetica anziché nudo o, al limite, coperto solo di un po’ di fogliame o di una pelle di pecora.
Ma Autin aveva la risposta pronta: una freccia scagliata bene e bene appuntita, diceva, era un po’ come una palla asciutta sparata dalla lunga distanza, e lui non usava visori o altro per migliorare la mira. Quanto alla mimetica, poi, gli antichi erano soliti imbrattarsi di fango per mascherarsi, sì, alla vista, ma anche all’olfatto delle prede; in confronto a questo, indossare una mimetica era addirittura meno efficace, perché nascondeva solo l’aspetto, ma non l’odore, del cacciatore.
E quindi Autin, ogni anno, si dedicava per qualche giorno all’antica guerra della catena alimentare, quella per cui il cervo non è una testa da esporre sopra il camino, ma un quintale di ottima carne da mangiare e congelare o, al limite, rivendere a qualche conoscente in cerca di prelibatezze.
In questo era corretto, Autin. Cacciava come gli antichi ciò che cacciavano gli antichi, e lo faceva per lo stesso scopo per cui lo facevano gli antichi.
Non amava la carne di allevamento, e disprezzava quelli che, nella classica trattoria di campagna, spendono fior di soldi in cambio, a suo dire, di un semplice maiale dal sapore un po’ forte chiamato pomposamente “cinghiale di allevamento”.
E una volta finito quel poco che poteva cacciare durante la stagione, non potendosi peraltro permettere di andare a caccia tutto l’anno in giro per l’Europa, finiva per diventare quasi vegetariano, tanta era la distanza fra la sua amata selvaggina e quello che poteva permettersi di acquistare.
Un uomo d’altri tempi, Autin, sia pure solo in questo. Per il resto, infatti, era persona modernissima, e tutt’altro che rigida o attaccata a non meglio identificate tradizioni.
Ma sulla caccia non sentiva ragioni.
Eravamo quindi a funghi, io, lui e Sorel, in un umido bosco stretto fra le cime dell’Appennino.
Poco prima della sua scomparsa, io e Sorel ci eravamo fermati presso un’area pic-nic sul limitare del bosco, che avevamo raggiunto partendo dall’altro versante della montagna attraverso un sentiero. Autin, invece, aveva deciso di proseguire: diceva di sentire che quella giornata sarebbe stata la più fruttuosa della sua carriera di fungaiolo, e a guardare la sua sporta già piena dopo nemmeno un’ora non si poteva dubitarne.
Attraversò quindi la strada, inoltrandosi nuovamente nel bosco verso ovest, invitandoci a raggiungerlo presso il laghetto artificiale che si trovava a circa un kilometro in quella direzione.
L’umidità non accennava a diminuire. Sentivo nelle ossa le fitte che mi procurava, nonostante lo spesso cappotto che indossavo.
Sorel mi porse un bicchierino di caffè caldo, che bevvi d’un fiato come una medicina.
Dopo qualche minuto di riposo, ci rimettemmo in marcia.
Era proprio vero: Autin si stava preparando a battere tutti i record di raccolta di funghi della regione. Intorno a noi, esclusa qualche amanita velenosa, il deserto: se mai c’erano stati funghi in quella zona, eravamo certi che fossero ormai finiti nella sporta di Autin.
Intorno alle sette, infine, arrivammo al laghetto.
Davanti a noi, oltre lo specchio d’acqua, si stagliavano le gole e le cime degli Appennini, e l’unica chiazza di roccia non coperta dal bosco era visibile a pochi metri di distanza da noi.
Era un costone di roccia completamente vuoto, troppo duro perché gli alberi potessero pensare di metterci radici, e troppo brullo ed esposto ai venti perché gli abitanti del bosco potessero trovarci da mangiare o nidificarci.
Su quella roccia notai un cervo bianco.
Lo indicai silenziosamente a Sorel, rimanendo con lui ad ammirarlo, mentre la nebbia si addensava poco sotto la rupe.
Il pelo dell’animale, splendente alla fioca luce del Sole, assumeva le sfumature più varie, da un gelido azzurro che sarebbe stato benissimo su un iceberg antartico fino a uno strano rosa pallido che, partendo dal petto dell’animale, sembrava disperdersi lungo la sua pelliccia fino a definirne i contorni, per poi sparire un’aura mistica color dell’oro.
Oltre che dall’insolito candore della pelliccia, la nostra attenzione fu richiamata anche da altre caratteristiche dell’animale: era robusto, forse troppo robusto per poter saltare attraverso gli scoscesi sentieri della montagna, e le sue corna troppo grandi e ramificate per essere adatte alla bassa macchia che costituiva la maggior parte della flora di quella zona.
Era forse un capobranco molto maturo, o forse una qualche specie aliena, magari ibridata con dei cervi locali per ragioni di ripopolamento. Nei suoi occhi, nonostante la distanza, scorgevo un lampo antico.
Sorel mi scosse, indicandomi con un sussulto una sagoma sbucata dalla boscaglia alle spalle del cervo bianco: era Autin.
Anche il cervo doveva essersi accorto di lui, tanto che si voltò di scatto. I due si gettarono l’uno contro l’altro con una furia paurosa, mentre la nebbia risaliva dal basso verso la rupe.
Io e Sorel, in silenzio, osservammo attoniti la lotta dell’Uomo contro il Cervo per come doveva essere stata all’inizio, prima ancora dei tempi dell’arco e della freccia, quando il primo dei nostri antenati aveva incontrato l’antenato dei cervi, e da subito si erano reciprocamente riconosciuti nemici.
Ma se oggi il Cervo fugge, intimorito dalle armi dell’Uomo, forse all’inizio non era stato così: dovevano aver combattuto infinite battaglie, l’uno di fronte all’altro, prima che l’arco e la freccia facessero la loro comparsa nel cervello dell’Uomo, prima che le gambe del Cervo si facessero agili, più veloci della freccia, e i suoi sensi acuti, capaci di prevenirla e di sfuggirle.
Io e Sorel, immobili, preda di una sorta di terrore sacro, assistemmo allora a quello che sembrava un viaggio nel tempo, fino a quell’epoca remota in cui torniamo nei nostri incubi, l’epoca in cui ogni cosa che ci circonda è veleno, è spina, è belva, è ira del Dio del tuono e della Madre Terra.
Autin e il cervo bianco lottarono per un tempo che ci sembrò lunghissimo, schiumando, sudando, sanguinando entrambi, mentre la nebbia li circondava. Mentre le corna dell’animale lambivano le gambe del nostro amico, lui rispondeva battendo a terra la dura testa dell’avversario e cercando di strangolarlo.
La nebbia, lentamente, si chiuse sull’ultima bolla di rabbia ancora visibile davanti a noi, e Autin e il suo nemico ancestrale scomparvero dalla nostra vista per sempre.