La Califfa: Metropolis visto da un’altra angolazione

Devo riuscire a dormire qui, davanti a lui, perché la mia coscienza è più forte del suo ricatto.” – Ugo Tognazzi/Doberdò nel film

Ho rivisto l’altra sera La Califfa, film di Alberto Bevilacqua del 1970 tratto dall’omonimo romanzo dello stesso autore. In questa ennesima visione, ho rivisto in esso una specie di rivisitazione del capolavoro muto di Fritz Lang, Metropolis, del 1927.

In effetti i paralleli, anche produttivi, fra La Califfa e Metropolis sembrano esserci: entrambi sono tratti da romanzi scritti da chi ne avrebbe poi scritto la sceneggiatura (Bevilacqua per La Califfa, Thea Von Harbou, peraltro, all’epoca, compagna di Lang, per Metropolis); entrambi hanno al centro il grande tema della ricerca del demiurgo, del mediatore fra le classi lavoratrici (all’epoca, prevalentemente operaie) e la classe datoriale (all’epoca, gli industriali delle grandi fabbriche dell’industria pesante); entrambi, almeno in apparenza, sono venati da elementi di fantapolitica.

Come si vede sopra, l’elemento fantapolitico, e anzi quasi fantascientifico, de La Califfa si esprime proprio nella sequenza della grande macchina da lei sabotata, a sua volta un potente simbolo del film di Lang. Una differenza, dovuta anche al decorso del tempo: in Metropolis, la macchina è azionata da intere squadre di operai; ne La Califfa, essa lavora automaticamente, o comunque senza che gli addetti debbano esserle fisicamente vicini.

Se tuttavia in Metropolis, e nella Germania di quegli anni, un demiurgo fu effettivamente trovato (con i risultati che tutti conoscono), meno facile potrebbe essere individuare a chi si riferisse Bevilacqua. Le schede del film e del romanzo da me reperite ne riportano l’ambientazione a Parma e l’ispirazione a non meglio specificati fatti realmente accaduti (ad es. Wikipedia). E in quegli anni (il romanzo è del 1964) l’Italia aveva da poco perso sia Adriano Olivetti (sulla cui morte ancora oggi si diffondono teorie che, se vere, non stonerebbero troppo con il clima generale del Paese) che Enrico Mattei (sulla cui morte, credo, ciascuno può ormai trarre le proprie conclusioni). O forse l’ispirazione derivava da qualche caso locale a noi ignoto, magari risalente nel tempo, visto che anche Gian Luigi Rondi rimanda la genesi primigenia de La Califfa a un precedente poema dello stesso Bevilacqua (della cui data di composizione non sono tuttavia a conoscenza)?

In realtà, nel romanzo la città di Parma non viene, mi pare, nominata: in esso si parla, invece, di un “ultimo duca” morto assassinato in città, probabilmente Carlo III (in realtà formalmente il penultimo dei Duchi di Parma, ucciso nel 1854, come dice la sempreverde Wikipedia); ovunque si cerchi, il riferimento è a un’ambientazione parmense, e forse l’avrà chiarito lo stesso Bevilacqua; ho infine ritrovato un segnalibro il cui testo parla di “una città vera, facilmente rintracciabile su una carta geografica“.

Il segnalibro di cui sopra, da Ebay
Il segnalibro di cui sopra, da Ebay

E allora: forse il Doberdò interpretato da Ugo Tognazzi è un misto fra Olivetti, un eventuale imprenditore italiano sconosciuto al grande pubblico, e forse Enrico Mattei?

Difficile dirlo. Difficile, accostandosi a opere di quella stagione del nostro Paese, pensare che l’ispirazione non venisse anche da clamorosi fatti di cronaca, peraltro in un periodo in cui, come forse mai era stato prima, la cronaca è stata ed è ancora politica.

Tornando al confronto fra i due film, esistono comunque delle differenze, al di là dell’ovvia distanza temporale e tecnica che li separa. Sono tuttavia differenze molto particolari, che si ritrovano, del resto, in altre possibili coppie di film “paralleli” (penso a Via Col Vento e La Quercia dei Giganti, di cui il secondo risulta veramente uno “specchio riflesso”, perfino nella costruzione simmetrica di certe scene e inquadrature, del primo): il Doberdò di Bevilacqua è un navigato imprenditore di mezza età, non un giovane rampollo come il Joh Fredersen di Lang; la Califfa, a sua volta, non è certo la candida Maria di Metropolis; e anzi, se Doberdò è per certi versi simile, almeno nei suoi lati più oscuri, al padre di Fredersen, Irene è molto più vicina all’androide creato dal mago/inventore Rotwang (un personaggio “esotico” come il soprannome di lei) piuttosto che a Maria, nella sua emancipazione, nella sua disinibizione, nella sua capacità di tenere testa a chiunque.

I due protagonisti, insomma, sembrano anche qui come visti da un’altra prospettiva, in uno specchio deformato che restituisce un’altra visione di un film già visto, proiettato forse per la prima volta nella Guerra civile dell’Antica Roma o ancora prima, nel primo sciopero della Storia, nell’Antico Egitto.

La Califfa segue di un paio d’anni Teorema, film di Pasolini (il quale, a sua volta, anche lui già sceneggiatore e regista del film, trarrà da quest’ultimo un omonimo romanzo). E’ interessante che, in effetti, anche Teorema segua un po’ il medesimo tema. Pasolini, infatti, mostra anche cosa succede laddove il demiurgo, che in Teorema è una vera e propria figura Christi, sparisce: per chi gli si è fatto devoto (come la cameriera interpretata da Laura Betti), si aprono le porte del Paradiso, o comunque di una missione divina in Terra; per chi invece vi si è solo accostato o non è capace di sopportarne la perdita, è il caos.

E’ un po’ quello che rischierebbe forse di succedere se all’improvviso avvenisse un cataclisma pari al Covid nel marzo-aprile 2020 o (per chi era esposto ai mercati russi) all’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, senza che però “lo spettacolo andasse avanti”. Cosa accadrebbe? Torneremmo nel Medioevo? Le democrazie imploderebbero definitivamente in delle dittature di tipo tribale? Avverrebbe la grande rivoluzione che è stata l’avvento del mondo post-1945? O forse cambierebbe tutto per non cambiare niente, sotto mille veli di promesse tradite?

Ecco, questo non c’è veramente modo di saperlo.

“Sai che ti dico? Io sono contento di non capire niente!” – Giancarlo Prete/Alibrandi nel film

E con questa frase, per certi versi ingenua ma anche carica di senso, vi saluto.

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